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La busta azzurra

LA BUSTA AZZURRA

di Beatrice Putti

ANNA

Scorreva liscia. La mia vita scorreva liscia. Fino a cinque mesi fa, ad un mattino di aprile quando, concluso il collegamento per la lezione a distanza con la mia alunna disabile, decisi di fare pulizia nello stanzino.

Avevo già riempito due sacchi neri condominiali con riviste, vecchi libri di scuola e altre polverose cianfrusaglie quando, sotto una pila di dischi, scovai una scatola di legno legata con uno spago. Decisi di aprirla un attimo dopo averla lanciata al volo nel sacco più vicino. La ripescai fra un vaso sbreccato e un manuale di pedagogia degli anni ’80. Dentro c’era di tutto: vecchie cartoline, depliant di viaggi lontani, foto dei ragazzi alle elementari, un vecchio orologio rotto, perfino i passaporti scaduti di vent’anni fa. 

Una busta azzurra attirò la mia attenzione. Era indirizzata a Paolo. Una grafia minuta, rotonda, sconosciuta.  Dentro tre o quattro fogli fitti di minuscoli grafemi. Le righe mi si confondevano davanti agli occhi. Dovetti andare in cucina a cercare gli occhiali.

Cambridge May 13th 1981

Dear Paul,

Era scritta in inglese, la lettera era scritta in inglese. Mi bloccai. Poi realizzai: 1981, l’anno della specializzazione di Paolo in Inghilterra. Storia della letteratura inglese. Università di Cambridge. Un anno prezioso che gli aveva aperto la strada per la cattedra universitaria. Un anno di fuoco per me che ero rimasta a Roma, a casa dei miei. I gemelli non avevano nemmeno un anno ed era impensabile trasferirsi. Non avevamo una lira. Il mio stipendio d’insegnante precaria bastava appena per l’affitto ed i pannolini. Con i gemelli era veramente dura, si svegliavano di notte e di giorno non si fermavano mai. Avevamo preso la decisione di comune accordo: lui in Inghilterra e io dai miei che mi davano una mano con bambini.

Dear Paul,

I ‘m desperate. I walk around the campus… a testa bassa perché ogni angolo mi parla di te. La panchina dove ci sedevamo nei giorni di sole, l’aiuola con le rose fiorite, la vasca dei pesci rossi dove mi baciasti la prima volta. 

Molly dice che passa. Che fa male ma poi passa. Ma questo peso allo stomaco non mi abbandona. I giorni sono tutti uguali. Mi alzo, vado a lezione, torno, mi butto sul letto, piango. Tuffo il naso nel maglione grigio che hai lasciato qui per cercare il tuo odore, ma ogni volta è un po’ meno forte. Ho paura del giorno in cui non lo sentirò più…..

Mi fermai. Non ero più sicura di voler andare avanti. Rimisi i fogli nella busta, la busta nella scatola. Chiusi lo stanzino e mi avviai nel corridoio strascicando i sacchi.

PAOLO

Lavai i piatti, li insaponai e sciacquai con calma. Mi faceva compagnia una canzone di De André dal salotto. Anna fumava sul terrazzo. Facevo tutto al rallentatore per arrivare più tardi al momento in cui non avrei avuto più scuse per raggiungerla.

A cena aveva chiesto dei ragazzi, del mio lavoro a Roma, con una cortesia così fredda che mi aveva gelato le parole in gola. Alla fine eravamo rimasti in silenzio, concentrati sul piatto, fingendo che spinare il branzino fosse un’operazione complessa. L’appetito mi era passato ma avevo ripulito il piatto e quasi finito la bottiglia di vermentino, sperando che bere mi avrebbe aiutato a trovare le parole giuste per avvicinarla.

Anna taceva .Finita la cena mi alzai e cominciai a sparecchiare.

Quel sabato di luglio l’avevo raggiunta nella nostra casa al mare dove lei si era isolata appena finita la scuola. Era la prima volta che partiva senza i bambini. “Hanno i loro genitori” aveva detto “Io sono stanca, ho bisogno di riposarmi e di stare tranquilla”. I ragazzi mi avevano chiamato preoccupati. Non capivano cosa stava succedendo.

La mamma è un po’ giù. Il covid, forse…” avevo tentato di spiegare.

Ma quella sera fu lei a spiegarmi tutto.

ANNA

Nei giorni seguenti riaprii diverse volte la porta dello stanzino.

Attraverso quelle righe tracciate con la grafia da adolescente ricomposi i pezzi della storia. Dove i pezzi mancavano ne fabbricai di nuovi, immaginando luoghi e incontri. Arrivata all’ultima pagina conobbi il nome di chi l’aveva scritta: Margareth.

Quella lettera mi sconvolse e non per quello che testimoniava, un tradimento, un amore di un giovane uomo per un anno lontano da casa, in un campus universitario, in un tempo che a dire il vero ora mi pare remoto. No, la lettera mi sconvolse perché mi resi conto all’improvviso che se quell’amore io potevo solo immaginarlo, la mia vita in quell’anno io me la ricordavo nel dettaglio. La fatica di quelle notti da sola con i gemelli, la frustrazione di una lontananza forzata, la delusione per le telefonate sempre troppo brevi.

Nei giorni successivi sentivo montarmi dentro un’onda nera, una rabbia che mi pervadeva e che non riuscivo a sfogare, tanto che nei primi tempo ammutolii. 

Vedendo che non gli parlavo, Paolo iniziò a chiedermi “Anna che c’è? Sei strana, parlami”, ma io lo guardavo senza rispondere, lo sentivo estraneo, lasciavo che tirasse conclusioni comode.

E’ questo maledetto lock down. Sei depressa. Devi andare dal medico.”

A fine giugno mi trasferii al mare con la gatta e i miei libri. 

Lui mi raggiungeva nel fine settimana. Lo accoglievo con la freddezza che si riserva ad un ospite indesiderato, fingendo di non cogliere il suo disagio. Fino a quel sabato sera di luglio, quando lui ricominciò con la storia del lock down e della depressione.

Sbottai: “Il lock down non c’entra, o forse si. Questo tempo sospeso mi ha costretto a fare due conti. Sulla mia vita intendo. Sulla nostra vita. Fare due conti e tirare una riga.”

Gli vomitai addosso tutto: i sacrifici fatti per lui, per i ragazzi, gli esami all’Università che non ero riuscita a finire, la sua assenza nella gestione della casa; con un risentimento ed una cattiveria di cui non mi credevo capace. Tornò a Roma il mattino dopo e per tutta l’estate lo sentii solo al telefono.

Io sono rientrata solo alla riapertura delle scuole, decisa a lasciarlo. Ho affittato un bilocale a Trastevere e ho cominciato a trasferirci le mie cose.

Lui non si è accorto di niente.

Stamani ho aspettato che uscisse per andare in facoltà, gli ho messo la busta azzurra sul cuscino, ho rifatto il letto e poi me ne sono andata tirando il portone.

Chissà quando si accorgerà che non ci sono più…

PAOLO

Se n’è andata, Anna se n’è andata.. L’ho capito quando ho trovato la busta azzurra sul cuscino.

Sono un cialtrone, un patetico cialtrone” dico a voce alta mentre sto qui fermo al buio nel nostro letto. “Perché non ho bruciato quella lettera? Non ricordo nemmeno dove l’avevo messa. Dove l’avrà trovata?”

Ora mi spiego tutto, i silenzi, la rabbia….ma è tardi .

Non ho il coraggio di allungare la mano nel letto vuoto.

Mi preparo ad una notte senza sonno

.

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Cristiana
Cristiana
3 anni fa

Mi piace tutto di questo racconto: la storia, la tecnica, il ritmo… brava Beatrice!