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SIAMO TUTTI SCRITTORI

Non è indispensabile definirsi scrittori per esserlo.

Cosa serve per scrivere? Poche cose, una penna, della carta o un computer, le mani (ma adesso ci sono i computer che rispondono alla voce per cui si sta risolvendo il problema anche per chi non può usare le mani) e…. vi viene in mente cos’altro manca? Una sola cosa, la più importante. Una persona.

Pérsona, o forse dovrei dire come i latini persòna, con l’accento grave: in latino questa parola indicava la maschera dell’attore, che copriva il volto ed era diversa a seconda del carattere rappresentato. Per metonimia, anzi per sinèddoche, una forma particolare di metonimia in cui l’elemento considerato si restringe o si allarga (la parte per il tutto, il tutto per la parte), la parola è poi passata a significare “personaggio”. Perdonate questa spiegazione ‘specialistica’: mi è servita perché quello che voglio dire è che ognuno di noi, ogni persona, è un personaggio, unico e non ripetibile. Di più: ognuno di noi ha dentro di sé tante persònae, tanti personaggi.

Pensate solamente a quanti diversi ruoli rivestite in una stessa giornata, quante maschere cambiate dall’alba al tramonto: genitore, figlia/o, lavoratore dipendente o autonomo, amica/o, padrone/a di un gatto o di un cane, membro di un’associazione sportiva, di una comunità spirituale, vicina/o di casa, e così via. Pensate alla ricchezza di spunti che può venire da ognuna di queste interpretazioni.

Le storie del personaggio che ognuno di noi è non sono quelle di nessun altro, e solo questo le rende interessanti e degne di essere scritte. Non pensate di non aver nulla da dire. Da oltre duemila anni gli uomini scrivono storie e le storie non finiscono mai, non c’è uno scrittore uguale all’altro come non c’è una persona uguale all’altra. Dunque per avere una storia è sufficiente vivere. La vita quotidiana di tutti noi è un continuo alternarsi di melodramma, commedia, tragedia, persino nelle piccole cose. Posso amare alla follia un paio di scarpe da ballo, perché avrei voluto fare la ballerina e non ho potuto, odiare come niente altro il cervello fritto, perché mia nonna mi imponeva di mangiarlo e quel suo gusto scivoloso e viscido mi è rimasto impresso per sempre. Tutto questo può diventare una storia.

Nel preparare questo articolo mi sono fatta aiutare da un grande scrittore americano, Ray Bradbury, e dal suo libro “Lo zen nell’arte della scrittura”, una raccolta di discorsi tenuti in varie occasioni sulla sua esperienza di scrittore.1Ray Bradbury “Lo zen nell’arte della scrittura” edizioni DeriveApprodi 2006 – trad. di Paolo Nori e Salim Catrina – le citazioni in corsivo non sono conseguenti nel testo. In questo libro Bradbury dice: “Cosa ci insegna il fatto di scrivere? Prima di tutto ci ricorda che siamo vivi, e che questo è un dono e un privilegio, non un diritto. La vita ci chiede in cambio delle ricompense per averci concesso l’animazione.” Al di là di quello che ognuno di noi può pensare sul fatto che la vita sia un dono, per alcuni lo è, per altri è una scelta, per altri una casualità, ma quello che mi ha colpito è quel termine “animazione”: noi siamo gli attori sulla scena di questo mondo, ed ogni giorno recitiamo delle storie.

Dunque ognuno di noi ha delle storie dentro di di sé. E forse pensa: perché dovrebbero interessare a qualcuno? Sono storie qualunque, vissute in posti qualunque, non hanno niente di particolare. Non è vero, non esistono storie qualunque, semmai storie raccontate più o meno bene. Questo è un altro capitolo, naturalmente, ma anche le cose che ci appaiono scialbe, o addirittura squallide, con occhi da adulto possono ad esempio essere state cose incantate per il nostro io bambino – e quante storie magiche possono averci suggerito allora, storie che sono ancora lì, da ripescare. Torno a Ray Bradbury per darvene un esempio. Questo scrittore visse la sua infanzia a Waukegaun, un piccolo paese dell’Illinois sul lago Michigan e dalla sua infanzia trasse spunto per alcune delle sue storie più belle, alcuni episodi di Cronache marziane, dell’Uomo illustrato (Il gioco dei pianeti). Quando era già famoso un critico scrisse un articolo su di lui, stupendosi che in “Dandelion wine” (L’estate incantata) lui avesse ribattezzato la sua città natale Green Town, come se non si fosse accorto di quant’era brutto il porto e deprimenti le banchine del carbone e il binario morto. E lo scrittore ribatte: “Ma naturalmente, li avevo visti, ed ero affascinato dalla loro bellezza. I treni e i carrelli e l’odore del carbone e del fuoco non sono brutti per un bambino, la bruttezza è un concetto che impariamo. Quel binario morto era il posto dove arrivavano le fiere e i circhi, con elefanti che lavavano il pavimento di mattoni con acqua acida che esalava vapore alle cinque del mattino. E per il carbone: all’inizio dell’autunno andavo nella mia cantina ad aspettare l’arrivo del camion e il suo scivolo di metallo che cadeva giù e lasciava andare una tonnellata di meteore dal lontano spazio nel mio scantinato. Se il tuo ragazzo è un poeta, la merda di cavallo per lui è un fiore: che è naturalmente quello che la merda di cavallo è sempre stata”.

Il materiale c’è dentro di noi, ma come si traduce in scrittura? Come si diventa scrittore? Scrivendo, semplicemente.

Ma da dove si parte?

“Cercate i piccoli amori, trovate e date forma alle piccole amarezze”

E’ un consiglio di Bradbury, proviamo a seguirlo. Andate all’esercizio  Un piccolo amore  nella sezione CREA1

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Concetta Mirabella
Concetta Mirabella
3 anni fa

Molto interessante