autrice Simona Ninci
Mi rendo conto in questa occasione di vivere circondata da oggetti piuttosto anonimi, che pur guardandoli e osservandoli con attenzione non mi parlano. E’ invece dai colori sgargianti della frutta che trovo ispirazione, da una noce. Non mi faccio mai mancare la frutta secca, in particolare le noci. La prendo fra le dita: è liscia nonostante la superficie sia irregolare, rugosa come la fronte di una donna arrivata ad una saggia età, squamosa come le decorazioni del guscio di una tartaruga, vissuta come la pelle di un contadino che ha passato troppo tempo all’aria aperta, al sole e al vento. Chiusa ed ermetica come il cuore di una donna che ha deciso di non amare più. E’ leggera, sembra delicata nonostante l’apparenza della scorza, ma non è vuota. Scuotendola leggermente si percepisce un movimento silenzioso, un nocciolo dentro che sbatte qua e là. Mi dà un senso di protezione, come il grembo di una donna, come una mano sicura a cui aggrapparsi. Come la figura di mio zio che quando ero piccola mi portava in lambretta al capanno, poco fuori il paese.
A me sembrava un viaggio entusiasmante, in piedi aggrappata al manubrio era il mio momento di trasgressione.
E al capanno c’erano conigli, galline, un gallo e alberi di ogni tipo. Mi ricordo bene un fico – ombra di fico e ombra di padrone sono due ombre burgerone, detto assai in uso a quel tempo – ed un noce. Al tempo mi portava a raccattare le noci, che si mangiavano a tavola tutti insieme con il pane. Ed era una prelibatezza, soprattutto un rito che univa e scaldava il cuore – a pensarci ora – e ritmava il passare delle stagioni e il cambiare delle giornate. E ricordo anche le nocciole, quelle invece le andavo a mangiare alla Verrucola, ero piccola davvero; con mia zia, di buon passo andavamo su da Elsa e le chiedevamo il permesso di raccogliere le nocciole, ancora avvolte dal loro involucro verde e ruvido.
Con che soddisfazione le schiacciavo sul muretto, a fatica ci arrivavo.
Ora che ci penso deve essere più per i ricordi che per altro che ho sempre in casa le noci. Una volta erano quelle nostrane e di stagione, queste credo siano francesi. Chissà che viaggio hanno fatto. Non riesco proprio ad immaginare, un carico di noci, via nave fino a Livorno e poi smistate. Sono tutte pulite e lucide, hanno poco dell’albero, del ramo da cui sono cresciute. Non ci sono tracce delle loro origini. E anche il sapore si è uniformato.
Del resto, siamo nell’epoca della globalizzazione, di tutto sempre disponibile anche se la qualità non eccelle. Non si riconosce più il lavoro artigianale, la territorialità dei prodotti. Un’oliva egiziana o spagnola è come quella pugliese o quella toscana, sempre oliva è. Il parmigiano lo si produce ovunque, a chi importa della qualità del latte e della stagionatura. Buttiamo via quintali di agrumi, litri di latte perché siamo regolati dalle norme della comunità europea e ce li andiamo ad importare dai paesi vicini.
Abbiamo tutto in qualunque momento sulle nostre tavole, ed un prezzo per questo va pagato. Fortunato chi come me ha vissuto anche i momenti scanditi dalle stagioni, dal duro lavoro dei contadini e della generosità della nostra amata terra.
Questo testo di Simona, così morbidamente caldo nei ricordi d’infanzia, e che dal ricordo trae spunto per confrontare quel mondo, più vicino ai ritmi naturali, più ricco nella sua semplicità, con quello di oggi, nasce da una semplice noce, con la tecnica di ‘far germogliare le cose’. FAR GERMOGLIARE LE COSE
Stupendo