IL DONO DEL CERVO
autore Riccardo Palmiero
Quando sono nel turno di notte è una pacchia. Lavoro da solo in un enorme piazzale con un muletto diesel molto potente. Le vibrazioni del motore mi risuonano nello stomaco con un rimbombo cupo, aggressivo, il suo ruggito mi dà un senso di potenza e invincibilità.
Mentre lo guido per caricare la piattaforma automatica mi sento onnipotente e la mia insicurezza sparisce, sto domando “la Bestia”! L’adrenalina mi fa ruotare veloce lo sterzo per le manovre necessarie mentre canticchio qualche motivetto rock, di quelli che piacciono a me, mi mancano i miei capelli lunghi fino a metà schiena, ma è il millenovecentonovantasei ed è venuto il momento di darsi una ripulita anche se l’orecchino è sempre al suo posto, quello da lì non si toglie.
Di contro, tra un carico e l’altro, spengo il muletto, scendo e sbatto la faccia nella quiete più assoluta, provo quasi dolore dopo tutto il frastuono del mezzo meccanico e le orecchie che fischiano mi fanno appena percepire il fruscio dell’autostrada dall’altra parte della valle che si confonde con quello delle foglie smosse dalla brezza di luglio o da qualche abitante dei boschi del Mugello. D’inverno sento chiaramente il rumore dei cervi lì intorno che scortecciano gli alberi per cibarsi o raspano la neve con gli zoccoli, per cercare qualche raro filo d’erba, e non è poi così difficile sentire il richiamo struggente dei lupi. D’altronde sono al Passo della Futa. E’ un posto selvaggio e ricco di storia, a poche centinaia di metri corre la Linea Gotica con i suoi bunker, le trincee, il fossato anticarro e poi il cimitero dei tedeschi, dove riposano le spoglie di trentamila soldati, il più giovane dei quali aveva sedici anni e ogni tanto penso con immensa tristezza a quel ragazzino ucciso dalla follia dell’uomo. Forse è anche per questo che amo così tanto gli animali.
Suona la sirena, ci avverte che sono le due di una notte tranquilla, il lavoro procede liscio senza intoppi e io mi godo il canto dei grilli e quell’aria tersa e fresca che solo l’Appennino sa regalarti. E’ l’ora della pausa e ne approfitto per mangiarmi il mio solito panino al prosciutto e formaggio, contemplando da lontano le luci di Barberino che fanno a gara con le stelle riflettendosi in un gioco fantasmagorico sulle acque increspate del lago di Bilancino.
Finito di mangiare decido di farmi a piedi quel centinaio di metri che mi separano dall’Ufficio Spedizioni invece di andarci col muletto, è una notte troppo bella e mi voglio godere quella breve passeggiata per prendermi un meritato caffè, quindi mi incammino attraverso il piazzale e passando tra le stive dei vuoti arrivo alla porta posteriore del magazzino dei pieni. Lo attraverso passando tra le file di bancali del PET, le famose bottiglie da un litro e mezzo, e arrivo in ufficio, mi faccio il caffè alla macchinetta e mentre lo bevo a piccoli sorsi per non ustionarmi la bocca, cosa che succede spesso, mi rullo una sigaretta.
Riparto facendo il percorso inverso, pregustando la fumata sotto il cielo stellato, pensando a quanto sono fortunato ad avere un lavoro come quello, in un posto come quello. Raggiunta la porta in fondo al magazzino la apro e… mi blocco in preda allo stupore più profondo e assoluto che mi sia mai capitato di provare. Di fronte a me, a non più di cinque o sei metri, c’è un bellissimo esemplare di Cervo Appenninico, che sentendo aprirsi la porta si gira verso di me e cerca di vedere cos’è che ha provocato quel forte rumore metallico. Non riesce a vedermi perché abbagliato dal faro posto sopra la porta e puntato proprio su di lui. E’ un maestoso esemplare maschio nel pieno della maturità sessuale con uno splendido palco di corna. Per me è un’emozione fortissima; lui è lì, di fronte a me, tranquillo si avvicina fino a circa tre metri, mi scorge e si ferma, mi fissa ma senza paura, nel suo sguardo leggo curiosità e consapevolezza della propria forza.
Io sono preda di una vera e propria tempesta emozionale, mi sembra di essere di fronte ad una divinità primordiale, tutta la scena ha un che di sacro e in un attimo mi vedo vestito di pelli, sporco e sudato dopo una giornata di caccia, mentre rappresento con pochi tratti veloci sulla parete della caverna i punti salienti della cerimonia in onore del Dio Cervo della Foresta.
Mi accuccio per non intimorirlo, cerco di mostrarmi piccolo e inoffensivo, ma un brivido di paura mi corre lungo la schiena, e se mi carica? ma ne sono anche attirato come una calamita e voglio avvicinarmi. In preda a questa lotta di sentimenti contrastanti mi alzo piano piano e inizio a muovermi verso di lui, molto lentamente faccio un passo, poi un altro. “Prova a toccarlo” mi dice il diavoletto saltellando sulla spalla sinistra, “è pericoloso” mi suggerisce l’angioletto seduto sulla spalla destra, ma subito dopo sento che non mi farà del male, lo leggo nel suo sguardo dolce e nello stesso tempo fiero. Una sensazione di tranquillità mi pervade. Quando sono a non più di un metro e mezzo si volta e fa tre passi allontanandosi da me, poi si ferma, gira il capo col suo splendido palco di corna e mi osserva immobile. “Ma allora vuoi che ti segua” mi dico, e così faccio qualche passo, lui si fa avvicinare fino quasi a farsi toccare e poi riparte, fa tre o quattro passi e si riferma a fissarmi; la cosa inizia a divertirmi, mi sembra di essere tornato bambino, quando giocavo a “un due tre STELLA!” o a nascondino con gli amici del quartiere e si tornava a casa sudati e puzzolenti di vita e di gioia, con le ginocchia sbucciate, da esibire come cicatrici di chissà quali eroiche battaglie.
E così, con questa complicità di sguardi e di intenzioni, passo dopo passo questo giochetto dura un bel po’, fino a quando non raggiungiamo il cancello aperto; a quel punto dopo un ultimo sguardo che sembra più un arrivederci che un addio, prende la via del bosco senza più fermarsi.
E io, mentre piango e tremo dall’emozione per aver vissuto quest’avventura straordinaria, ritorno ai miei compiti. Devo riempire la piattaforma e sono in ritardo. Ma sono felice.